Distanze nel combattimento, ovvero come sconfiggerla

La lezione di ieri sera è stata completamente improntata sulla gestione delle distanze nel combattimento e come avete potuto vedere la vittoria o la sconfitta si decide proprio sulla tattica della distanza.

Molteplici sono i fattori su come gestirla e in palestra cercheremo di sviscerarli tutti ma poi sta al singolo praticante adattare la distanza del proprio avversario alle proprie caratteristiche, peculiarità e tattiche.

In un  vecchio articolo avevo focalizzato il problema su come accorciare la distanza con una spazzata, tecnica molto utile ed efficace che spesso riesce a risolvere la situazione di un attacco.

Ma partiamo dall’inizio:

Teoria della distanza

La distanza deve essere la giusta separazione tra un atleta ed il suo avversario, per fare in modo che i suoi attacchi abbiano effetto e che l’altro non abbia tempo per reagire e mettere in pratica la difesa adeguata. Dalla distanza dipendono, come vedremo, le diverse tecniche, la loro efficacia e la possibilità di difesa e di risposta. In definitiva, costituisce l’ingrediente indispensabile della tattica agonistica; inoltre fornisce all’atleta un certo margine di sicurezza, dandogli la possibilità di vedere immediatamente le azioni dell’avversario, riuscendo in seguito a contrastarle in tempo.

La distanza va gestita sia per preparare un attacco sia per gestire una difesa con o meno contrattacco spezzando l’avanzata dell’avversario portandolo ad un affondo a vuoto.

Questo spezzare il ritmo dell’avversario può tornare utile sia per studiarne le strategie sia per riprendere fiato durante un combattimento. NDR

In principio la distanza migliore sarà quella media, dalla quale l’atleta, dovutamente protetto con una guardia efficace, potrà studiare la strategia, la tattica e la tecnica del suo avversario. Poi durante il combattimento, la cambierà progressivamente, sino a raggiungere quella ottimale.

Ricordiamo che ogni lottatore adotta la distanza di combattimento a lui più congeniale e questo dipende dalla sua costituzione fisica, dalla sua capacità tecnica e dal sistema di allenamento che ha seguito nel periodo precedente la competizione. Costringere l’avversario ad entrare nella distanza ottimale, costituisce una delle fasi della strategia del combattimento e ad essa devono essere mirate le finte, le schivate e gli spostamenti del lottatore, provocando delle rotture di ritmo o degli errori di posizione dell’avversario che gli procureranno il vantaggio necessario ed infine la vittoria.

  Ma ora un po di storia

L’evoluzione in Occidente

Vedi anche approfondimento sulle arti marziali Occidentali..

Fin dall’antichità classica i sistemi  di combattimento “corpo a corpo” sono stati una prerogativa dell’occidente e, per quanto ci è permesso di risalire basandoci su riferimenti scritti, essi derivano dalla cultura dell’antica Grecia. Fin dal 700 a.c. e per diversi secoli il sistema “principe” fu il Pancrazio, sviluppato originariamente come stile di lotta “senza regole”, ove erano ammessi anche morsi, testate e tecniche finalizzate ad uccidere l’avversario.

Un combattimento di Pancrazio prevedeva sia tecniche a terra quali leve articolari strangolamenti e tentativi di fratture, sia tecniche a distanza (la c.d. “ortomachia”). Entrambe le strategie furono sviluppate con successo e generavano scontri di efferata violenza. In maniera minore trovò spazio un sistema basato su tecniche portate da breve distanza in posizione quasi eretta, finalizzate a bloccare le braccia dell’avversario entrando così nella sua guardia. Si trattava di qualcosa di molto simile al moderno Wing-Chun cinese.

Inevitabilmente il Pancrazio subì nei secoli un affinamento dei concetti tecnici; da disciplina praticata esclusivamente per individuare un “campione” o in occasione di riti funebri, divenne uno stile di lotta approcciato da molti in maniera professionistica.

Lo sviluppo della cultura greca classica impose una rivisitazione del Pancrazio, dal quale vennero quasi definitivamente scorporate le tecniche più violente; la tendenza era quella di definire un “corpo a corpo” più serrato ove gli avversari opponessero nello scontro il triangolo “testa-spalle”, assumendo una posizione piegata in avanti. In questo modo, oltre ad evitare l’atterramento, i combattenti creavano tra loro una distanza sufficiente ad evitare tecniche di pugno o di calcio portate nei punti vitali situati sotto il torace. Sulla base di queste modifiche il Pancrazio poté essere ammesso nel programma olimpico dell’antichità (648 a.c.).

 

La filosofia del combattimento corpo a corpo venne chiaramente importata dai Romani, che dopo l’invasione della Grecia fecero propria gran parte della cultura ellenistica.

L’espansione dell’Impero portò la pratica di questo tipo di lotta in tutta Europa e nelle zone dell’Africa Settentrionale. Lo stesso Alessandro Magno, che ricevette un’educazione di stampo ellenistico, contribuì in epoca anteriore alla diffusione di tale sistema in tutto il Medio Oriente, sino ai confini con l’India.

Nel corso dei secoli seguenti il crollo dell’Impero Romano ogni comunità etnica modificò i sistemi basati sulle impostazioni nate ai tempi della Grecia classica, mantenendo però quegli elementi fondamentali per ridurre la pericolosità della lotta e farne uno strumento di aggregazione sociale e culturale. Lottare a stretto contatto con l’avversario divenne dunque il comune denominatore di pratiche diffuse in tutta l’area che fu interessata dall’influenza dei latini.  Possiamo citare la lotta Canaria (isole Canarie), il Kirkpinar (Turchia), il Caleçon (Svizzera), la S’istrumpa (Sardegna), lo Mbre (Senegal), tutte tecniche accomunate anche da un regolamento che vede sconfitto il lottatore che per primo tocca terra con una parte del corpo diversa dai piedi.

Pur non avendo subito l’influenza della cultura Greco-Romana, il Sumo possiede elementi simili alle lotte appena citate, sia sotto l’aspetto tecnico che sotto quello culturale. In tutte queste discipline prevale un aspetto cerimoniale fondamentale che permea l’intero evento marziale.

E’ possibile affermare che durante il dominio dell’Impero Romano e nei secoli seguenti l’uomo utilizzò i sistemi di combattimento al fine di mantenere un’identità culturale più che per applicarli in una battaglia per la vita o per la morte. Lottare non significava prepararsi ad uno scontro bellico, ma era un modo per creare un feticcio della bellicosità di cui è intriso l’animo umano.

 

La validità di questo concetto non esclude però una possibile ipotesi relativa ad un retaggio del Pancrazio nella tecnica bellica del legionario romano. Egli combatteva infatti con il gladio, una spada corta che imponeva la riduzione della distanza rispetto al corpo del nemico. L’obiettivo era dunque quello di immobilizzarlo per un istante, tanto da penetrare la sua guardia e “pugnalarlo” all’addome, provocando ferite letali.

Il crollo dell’Impero vide un graduale deterioramento della tecnica utilizzata in battaglia, parallelamente ai vari stili di lotta che erano andati a svilupparsi in Europa e nel bacino del Mediterraneo.

Durante il Medioevo si enfatizzò maggiormente l’armamento del soldato, sia difensivo (armature pesantissime) che offensivo (lunghe spade), fatto che contribuì a limitare decisamente la tecnica di combattimento. Gli scontri divennero molto più grossolani, l’uomo andava via via perdendo la centralità sul campo di battaglia; contava di più la massa indistinta che il singolo con le proprie caratteristiche.

A metà dello scorso millennio l’introduzione delle armi da fuoco negli eserciti occidentali segnò la definitiva scomparsa del “guerriero”, così come concepito nelle schiere di opliti o nelle coorti romane.

Sulla scorta di tale considerazione possiamo facilmente intuire la ragione per cui in Giappone le arti marziali sono state tramandate sino ai giorni nostri in maniera così vivida.

Il prolungarsi del periodo feudale fino all’800 e l’isolamento dal resto del mondo contribuirono ad evitare la diffusione di armi da fuoco e di tattiche belliche di stampo occidentale. Negli scontri che caratterizzarono per secoli le lotte intestine nel paese del sol levante venne mantenuta la centralità dell’uomo nello scontro in battaglia, tale da rendere determinante la conoscenza di una particolare ed efficace tecnica di lotta.

L’evoluzione in Oriente

Una parte degli studiosi di discipline marziali sostiene la tesi che ipotizza una genesi comune ai sistemi di combattimento sviluppatisi sia in Occidente che in Oriente. Attualmente non esistono fonti letterarie od archeologiche che possano avvalorare un tale aspetto, tuttavia è possibile individuare una matrice comune di origine indo-europea.

E’ un dato di fatto che la più antica arte marziale di cui si abbia una testimonianza scritta sia il Dhanur Veda (dal libro Bhagavata-Purana), sviluppatasi in India circa 5.000 anni prima di Cristo.

Il declino della civiltà védica, avvenuto nell’arco dei tre millenni prima di Cristo, coinvolse anche le arti marziali. Gente priva di valori morali e guidata da interessi egoistici, ripulì quasi totalmente il Dhanur-veda del suo aspetto mistico, a loro incomprensibile, riducendolo ad una semplice disciplina marziale. I pochi cultori che tramandarono nel periodo precristiano ciò che rimaneva della disciplina mistica furono i guerrieri di Manipur e, su larga scala, i monaci buddhisti. Già all´epoca della fondazione del buddismo l´arte marziale indiana si presentava come una scienza codificata secondo canoni ben definiti. Si dice che Buddha, che era un principe, il quale la praticava, fosse profondamente convinto della sua efficacia come método per l´unificazione del corpo e della mente, e di conseguenza l´arte marziale vedica venne assorbita dal buddhismo.

Da questa disciplina, in cui sussistevano elementi che trascendevano la dimensione fisica (princípi dello Yoga) derivarono i sistemi di combattimento diffusisi parallelamente alla dottrina buddista in tutto l’Oriente.

La storia delle arti marziali orientali individua proprio i monaci buddisti quali depositari delle antichissime tecniche di derivazione indiana, identificando in Bodhidharma il patriarca che partendo dalla Cina settentrionale avviò il processo di diffusione di tale sistema in tutto il continente.

Dall’analisi delle più antiche testimonianze letterarie cinesi e da ciò che oggigiorno possiamo osservare nella pratica di un ampio ventaglio di stili di kung-fu, possiamo affermare che, diversamente da quanto accadde sotto l’Impero Romano, in Oriente si sviluppò maggiormente la filosofia del combattimento a distanza, privilegiando le micidiali tecniche dell’ortomachia abbandonate dagli antichi Greci.

Le ragioni che portarono a privilegiare una tale scelta sono essenzialmente di ordine pratico, ma non esclusivamente.

Il Kung-fu, nome con il quale vengono attualmente identificati i metodi di combattimento che presero forma nell’antica Cina, venne inizialmente praticato dai monaci, che lo utilizzarono  prettamente con lo scopo di mantenere una perfetta forma fisica. La sedentarietà della vita monastica doveva essere contrastata da esercizi che prevedessero l’estensione degli arti ed un’ampia varietà di posture; elementi che affondano le radici nella pratica dello Yoga, disciplina che è considerata salutare per il mantenimento psico-fisico.

Da un punto di vista prettamente pratico, è possibile affermare che i monaci furono costretti a sviluppare una disciplina nella quale l’utilizzo del corpo doveva avere per forza una finalità letale, essendo per loro impossibile portare armi.

Questo aspetto venne ancor più enfatizzato quando, durante il passato millennio, essi divennero “guerrieri” al seguito degli eserciti dei vari principi che si contendevano i territori di Cina e Giappone.

Palesemente, la filosofia del combattimento a distanza sostenuta in Oriente assumeva estrema importanza proprio quando ci si trovava in battaglia contro nemici dotati di armi “lunghe”, o addirittura quando la situazione avversa imponeva di affrontare a mani nude un avversario armato di lama.

Sulla base dell’esperienza dei “monaci-guerrieri” i sistemi di combattimento a distanza si diffusero nel Giappone feudale, importati dalla Cina nel corso del passato millennio. Contribuì a tutto ciò la particolare situazione sociale creatasi in alcune province giapponesi. Le lotte intestine fra i clan per la supremazia e l’ascesa allo shogunato incoraggiarono il concentramento di immani risorse belliche, oltre a infondere un clima di costante incertezza tra la popolazione. Nel Giappone feudale il brigantaggio era un reato all’ordine del giorno che assillava in particolar modo gli agricoltori, ovvero la fetta maggiore del popolo nipponico.

 

Naturalmente l’argomento è molto vasto ed interessante sia nella sua filosofia, storia ed applicazioni e mi riservo in futuro di ritornarne a parlare.

 

Fonte Fonte Fonte